Lettera d’amore a me stessa

APPUNTI CRISTALLINI PER PENSIERI NEBULOSI

Timidi bagliori od improvvise ed inaspettate illuminazioni
ovvero
maldestri tentativi di archiviare appunti mentali prima che ne svaniscano gli effetti propositivi che sanno suscitare nel cuore.

Camminare concilia pensiero e buon senso. Devo ancora capire come avvenga ma tant’è: si prendono a braccetto e procedono fianco a fianco sulla via dell’elucubrazione spontanea.
Qualche giorno fa mi son ritrovata a macinare pensieri, li impastavo con le sensazioni e, come un lieve sussurro, ho avvertito un disvelamento.

Mi sono sempre controllata, tenuta o, meglio, trattenuta, di fatto castrata. Mi soffoco chissà da quanto tempo, forse da sempre e, prima che diventassi abbastanza grande dal farlo in autonomia, probabilmente ci pensava qualcun altro a farlo per me.
Soggiogata e sottomessa ad un rigido rigore schematico, ho scoperto che non mi conosco. Non so davvero come sono, ed è qui che sta il punto fondamentale: non so chi sono perché non so che forma ho.
La chiusura è stretta conseguenza della crescita forzata a ridosso di una stecca di legno. Come una piantina sono stata ciecamente guidata per non disperdermi, mi sono avvolta tutt’intorno, alzandomi, crescendo in profondità, giungendo a vette vertiginose di inadeguatezza ed inesperienza; la porzione di mondo a mia disposizione era troppo risicata.
Non conosco la libertà quindi, se anche desiderassi sfruttarla, non saprei cosa farmene e, peggio ancora, invece di coglierla come un’opportunità mi sentirei ingrata e del tutto destabilizzata. Spaesata e spaventata.

La paura è figlia di ignoranza, ed io sono tutta una paura. Mi sento: non funziono, non so svolgere neppure le mie attività vitali essenziali, faccio fatica in tutto. Mi mancano le energie per continuare a nuotare perché è da quando sono nata che nuoto controcorrente. Non sono stata “programmata” per seguire il flusso, per andare con la corrente, galleggiare serena. Mi hanno addestrato a combattere. E non si può combattere se non in modalità bastian contrario. Il più delle volte è un meccanismo che si accende e si mette in moto in totale incoscienza, non faccio nemmeno in tempo a realizzarlo, a rendermene conto, che già indosso un paio di guantoni e stringo a mascelle serrate il paradenti.
Questa durezza, però, a lungo andare, provoca malessere, disagio ed infelicità, tutti effetti collaterali dal dolore lancinante dovuto ad una costante frizione col mondo che mi circonda. Sono spasmi e contrazioni, non c’è spazio per apertura né accoglienza; non ci sono abbracci, non c’è posto per la morbidezza.

Uno dei miei più grandi desideri sarebbe quello di lasciare andare, mollare le asfissianti ed asettiche redini del controllo, della premeditata proiezione del poi, lasciarmi andare all’essere, vivere il presente e non subirlo in vista del dopo.
Che poi, sono giorni che ci penso. Penso a tutte queste regole, a tutte queste unità di misura che mi sono imposta e ho imparato ad accettare, come se ogni cosa voluta, sentita o desiderata non potesse esser elargita o, peggio, concessa, se non preventivamente patita e/o scontata. Senza tenere in conto che poi, comunque, ho da far fronte al senso di colpa. Sacrifico me stessa, immolo la mia spontaneità in nome del principio scaturito dal senso di colpa, di come dovrebbero essere o come dovrebbero andare le cose. Eppure, ironia del caso, io non so affatto né come dovrebbero essere, né come dovrebbero andare. Puntualmente scopro di non aver la più pallida idea di cosa voglio o di cosa, virtualmente, potrei volere. So solo che così non sto bene.

Finalmente, in nome di questa ignoranza esistenziale, ho realizzato che non posso (e non devo) aver paura di qualcosa che non conosco. Come posso temere un cambiamento, sia esso un mutamento od una trasformazione, di un mero ideale proiettato dalla mia mente ma, soprattutto, come posso sostenere tutto questo dolore che non ho voluto io, ma mi è stato fatto credere fosse un mio bisogno, necessario ed imprescindibile?
Perché, se ho alimentato con strenua fermezza una tale convinzione, qualcosa deve aver agito a livello inconscio in maniera pressante e costante. Qualcosa o qualcuno mi ha trasmesso ed inculcato un modello marcio, erroneo e mortifero. Come posso lasciarmi ciondolare sull’orlo del baratro e pensare che sia giusto così? Che vada bene così?

Ed ecco che si legittimano queste mie costanti sensazioni di paura ed insicurezza che mi percuotono le vene. Come una specie di soffio al cuore, un rumore di fondo.
Il reverenziale timore della sovversione, come un tradimento che puzza di incapacità a gestire la forza di volontà, una voce d’oltretomba che mina (e minaccia) l’apparente sensazione di equilibrio che certi giorni, in alcuni momenti, per pochi istanti mi sembra di aver guadagnato. Un baricentro a tempo limitato, stabile come neve che si scioglie al sole e svanisce in un battito di ciglia, facendomi vacillare. È solo un’impressione che crea dipendenza. Da lì, da quella sensazione di insicurezza sorgono i millemila interrogativi e le mille e una strategie per arginare quel dolore.
Io non so che forma ho, ma vorrei scoprirlo.

E poi c’è la questione del dover “SMALTIRE” LA VITA.
Giorni che questo problema mi rimbomba in testa. Il pensiero fisso di come fare per smaltire, cosa fare per espiare la colpa di un cedimento, di una qualche spontanea concessione. È un pensiero che mi fa ammattire, una fissazione che trasforma una semplice idea in un’ossessione senza fine. Poi penso che se davvero mi lasciassi andare, se davvero mi lasciassi vivere, concedendo al mio desiderio di esprimersi, dando a me stessa l’opportunità di assumere la mia forma, il mio desiderio non diventerebbe eccesso, non sarebbe strappo alla regola, ma rientrerebbe nei canoni di una normalità commisurata alle mie necessità: non potrei strafare nemmeno volendo. Di qui sorge il desiderio di libertà nei gesti, di riuscire a pescare un biscotto dal sacchetto e farlo col sorriso sulle labbra, pronta ad assaporare il gesto, il momento: un biscotto al sapore di libertà.
Ecco che non occorrerebbe che io mi preoccupassi di inventare un modo per smaltirlo perché, se fossi anima armonica, se fossi unità con le mie necessità, se fossi serena e non mi ostinassi a controllare i minimi stimoli ed impulsi, se tutto fluisse, ci penserebbe la vita – naturalmente – a “smaltire” il tutto da sé.

Compiti per casa: imparare a gestire un desiderio, a dargli forma, dargli vita, partorirlo, concedergli dignità concretizzandolo in un gesto. Sembra facile, devo trasformare il pensiero in azione spontanea.

Francesca

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